Genova, 3 agosto 2020. In città si respira un’atmosfera strana. Nel pomeriggio si inaugura il nuovo Ponte San Giorgio. Dovrebbe essere un giorno di festa. Già, dovrebbe, perché in effetti non è così. Il nuovo viadotto, infatti, sorge là dove per cinquant’anni c’è stato il Morandi. Quello con gli stralli. Il ponte di Brooklyn dei genovesi. Ed è un ricordo che pesa come un macigno. 

Perché la memoria non può che andare a quella tragica mattina del 14 agosto 2018 quando, alle 11,36, il ponte si è sbriciolato trascinando con sé in pochi istanti la vita di 43 persone. Per la città tutta, e non solo, una ferita ancora aperta e che, in verità, non potrà mai rimarginarsi. Per l’Italia, una pagina vergognosa.

Perché il Morandi, lo sappiamo, non è venuto giù per caso, ma per una colpevole incuria di chi avrebbe dovuto custodirlo, tutelarlo e garantirne la corretta manutenzione, e che invece nulla di tutto questo ha fatto. Tutti aspetti al centro del complicato processo in corso.

Realizzato dal consorzio riunito in Per Genova composto dai due principali attori, Webuild e Fincantieri, con Italferr e la società di certificazioni Rina, il nuovo ponte, significativamente battezzato San Giorgio (che non è il patrono, ma il simbolo della città), non ha certamente un compito facile.

Ne è consapevole anche l’architetto Renzo Piano, che il progetto del nuovo ponte ha firmato e voluto donare alla sua città, quando proprio in occasione dell’inaugurazione, dice che «non è facile essere eredi di una tragedia. E questo ponte è figlio di una tragedia. E le tragedie non si possono dimenticare. Si elaborano, si metabolizzano, ma restano imprigionate nelle nostre coscienze». La stessa archistar, aggiunge però quello che probabilmente non è soltanto un auspicio personale. E cioè l’augurio «che questo ponte possa essere amato».

Sono numeri importanti, ma…

A distanza di tre anni e qualche mese dall’inaugurazione (e a cinque dal crollo del Morandi), è forse ancora presto per dire se l’augurio espresso da Renzo Piano si sia tradotto in realtà, o quantomeno abbia cominciato il percorso nel senso auspicato. 

Di certo, il nuovo viadotto sul Polcevera, la cui gestione è affidata a Autostrade per l’Italia (rientrata in ambito statale), ha quantomeno raggiunto il primo traguardo. Proprio nei giorni a ridosso del terzo compleanno (l’apertura ufficiale alla circolazione porta la data del 4 agosto 2020), è stata infatti oltrepassata la soglia dei 50 milioni di veicoli in transito. Si tratta di un traguardo simbolico, che tuttavia suggerisce qualche riflessione. 

Numeri alla mano, infatti, il dato generale fa emergere una flessione dei transiti, almeno se comparati con quelli registrati in particolare nella prima parte degli Anni Duemila. Quando la media giornaliera era di circa 70 mila unità, di cui quattro quinti, l’80 per cento, rilevati come veicoli leggeri, con la restante quota attribuita al camion. 

Nei primi tre anni di attività, il San Giorgio si è invece attestato su una quota di circa 48 mila transiti al giorno. Dunque, trattasi di un calo abbastanza rilevante. Che istintivamente potrebbe anche suggerire troppo frettolose conclusioni sul motivo di tale flessione. 

Nel senso che sarebbe totalmente sbagliato imputare in qualche modo il calo del traffico veicolare a una sorta di ‘effetto nuovo ponte’. 

No, il San Giorgio, va detto con estrema chiarezza sgombrando il campo da possibili fraintendimenti, rappresenta oggi una struttura modello a 360 gradi, come probabilmente non esistono in Italia nel settore dei ponti e dei viadotti.

Lo è prima di tutto a livello di concezione (niente scenografica struttura strallata, bensì una più elegante e sobria idea di vascello che ben richiama la natura stessa della città), ma anche per ciò che riguarda i materiali impiegati (si è optato infatti per la struttura mista  acciaio-calcestruzzo, con impalcato stradale sorretto da diciotto piloni in cemento armato), e non ultimo di tecnologie implementate a garanzia del costante e continuo monitoraggio a beneficio della manutenzione dell’opera.

Le principali innovazioni

Al di là dell’eleganza delle forme, che pur sempre costituisce il tratto distintivo che non passa inosservato, il ponte Genova San Giorgio si distingue per i contenuti tecnologici fortemente innovativi. 

I pannelli solari, ad esempio. Basato su celle monocristalline, il sistema può soddisfare attraverso lo specifico dispositivo di accumulo, fino al 95 per cento del fabbisogno energetico del ponte. 

Decisivo è poi il lavoro della coppia di robot inspection installati sue due lati della carreggiata, il cui compito è quello di monitorare a intervalli regolari lo stato di salute del viadotto. Oltre a questo, una serie di sensori posizionati in punti chiave del ponte monitorano lo stato dei piloni di sostegno, dell’impalcato, il peso dei veicoli in transito e le sollecitazioni cui è sottoposta la struttura. 

Anche i robot wash ‘camminano’ ai lati carreggiata, assicurando la pulizia delle barriere antivento e dei pannelli solari. Sfruttano pioggia e rugiada e si attivano in automatico. Insomma, un gioiello. Ma il ricordo del crollo del Morandi non si cancella.

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