Nessuno lo avrebbe mai immaginato. Nessuno, tra le 80 auto, le 90 moto e i 12 camion che in quell’ultimo martedì dell’anno, sotto la Torre Eiffel, affollavano il Trocadero, poteva ancora saperlo. E probabilmente, in quel preciso momento, indaffarati com’erano negli ultimi controlli ai propri mezzi prima del via, nemmeno pensavano che quell’inedita avventura travestita da gara, potesse nel tempo diventare l’icona dei rally raid. Una competizione iconica, a partire dal nome, un inscindibile binomio di toponimi che prendeva spunto proprio dalle due capitali protagoniste: quella di partenza, Parigi, e quella d’arrivo, Dakar (Senegal). Con quest’ultimo che, dopo molti anni, sarebbe diventato l’unico appellativo della manifestazione motoristica.

Una gara, perché in questo si è rapidamente trasformata la Dakar, unica, affascinante, coinvolgente. Straordinariamente bella, ma ad altissimo rischio. E proprio per questo amata e odiata, difesa e contestata. La Dakar non è mai passata inosservata. Ha sempre fatto notizia. Nel bene, e spesso, molto spesso purtroppo, per le tragedie che ne hanno costellato il percorso.

Dakar
Da tempo sono i russi di Kamaz a dominare la Dakar, ma ci sono stati anni in cui la celebre maratona parlava italiano. Lo ha fatto per quattro anni consecutivi, dal 1990 al 1993, con Perlini

Dakar, una gara senza tempo. Con le sue pagine tristi

Ciascuno la pensi come vuole, ci mancherebbe. Ma non c’è dubbio sul fatto che l’idea di Thierry Sabine, il suo inventore, sia stata geniale. Ardita e pazza quanto volete, ma geniale. Partire da Parigi, attraversare il Mediterraneo, sbarcare in Africa, e attraverso territori all’epoca poco esplorati quali ad esempio il Mali e la Mauritania, arrivare al traguardo sulle sponde del Lac Rose, a Dakar, nel Senegal. Tutto questo, facendo affidamento unicamente sulla propria capacità di affrontare e gestire, su percorsi totalmente inediti, situazioni al limite e imprevisti. Certo, oggi quello spirito di avventura si è totalmente perso.

La Dakar ha dovuto pure traslocare, costretta dalla minaccia terroristica di Al Qaeda a emigrare in Sudamerica (2009) e quindi in Arabia Saudita (2020). Nel primo come anche nel secondo caso necessariamente attratta dai considerevoli finanziamenti indispensabili per organizzare la corsa. Cambiamenti che alla sola idea hanno sempre trovato contrari i dakariani-puristi della prima ora, quelli che alla partenza mettevano nel proprio bagaglio unicamente la bussola e la voglia di misurarsi, prima di tutto con se stessi. Eppure di questa corsa si continua a parlare. Perchè la Dakar, lo si voglia o meno, è storia.

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